//RadioOhm al Torino Film Festival
Torino Film Festival 2019

RadioOhm al Torino Film Festival

di Paolo Ferrara*

RadioOhm, con Paolo Ferrara, segue la rassegna cinematografica nel capoluogo piemontese. Il suo report, giorno per giorno.

Venerdì 22 novembre 2019
La parola d’ordine è “pianificazione”. Oggi inizia la 37° edizione del Torino Film Festival, un evento che porta il cinema (di cui nell’imminente 2020 Torino sarà la capitale) in giro per il centro della città con centinaia di film, documentari e cortometraggi che tra il Cinema Massimo, il Cinema Centrale e il Multisala Reposi si contenderanno rassegne, tre concorsi e diversi premi. 

È proprio qui il punto: nell’arco dei nove giorni di proiezione, tra le 9 del mattino e la mezzanotte circa, pellicole ed eventi si distribuiscono tra i tre cinema, ovviamente in contemporanea, il che si traduce in una accuratissima analisi strategica che tenga conto di tempi di spostamento, cose da vedere e cose che vuoi vedere, la vita reale (che tendenzialmente nei giorni del festival sembra piuttosto irreale), le esigenze pratiche come il sonno o la necessità di bere e mangiare, in modo da riuscire a vedere il più possibile. O forse è più giusto dire, di perdersi il meno possibile. 

Tra le rassegne: Si può fare! – Da Caligari agli Zombie, con una selezione di classici dell’horror, che vanno dai canoni Universal (Dracula, Frankenstein e Il Mostro della Laguna Nera, ad esempio) passando a pietre miliari come Rosemary’s Baby di Roman Polanski o La Maschera del Demonio di Mario Bava con l’attrice icona Barbara Steele (alla quale sarà consegnato il Gran Premio Torino), e Soldati’s Day, dedicata al regista Mario Soldati, tra film e documentari tv.

Film di apertura JoJo Rabbit di Taika Waititi, attore comico e regista che, dopo aver dissacrato i vampiri con What we do in the Shadows (ora diventato serie tv) e i supereroi con il suo Thor 3 Ragnarok, questa volta si “diverte” a smontare i miti del nazismo e la figura stessa del führer.

L’agenda è pronta, le prime, sofferte, scelte sono state fatte. Niente pop-corn, è vero, ma è comunque l’ora del cinema.

Voi siete pronti?
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Sabato 23 novembre 2019 (Paolo Ferrara)
Il film d’apertura, Jojo Rabbit (di Taika Waititi), parte della rassegna Festa Mobile, si è subito trasformato nella chimera di questo 37° Torino Film Festival, continuando a esaurire i propri posti con largo anticipo sull’ingresso. 

Ma per il weekend non è certo l’unica chimera. In questo sabato di abbondante pioggia dove ogni necessità di base, come recuperare oggetti da zaini e borse, sistemarsi o togliersi la giacca, diventa una battaglia contro l’acqua a caccia di  nuche scoperte o varchi tra i vestiti, i fantomatici biglietti blu che permettono l’accesso alle proiezioni pomeridiane volano via come se fossero anche loro offerta da black friday.

Rischedula, incastra, accodati alle lunghe code evitando ombrelli in un occhio.

Quando finalmente riesci a trovare il tuo spazio semi asciutto (hai un ombrello che ti gocciola tra le scarpe ai piedi e il giubbotto umido sullo schienale della poltrona) all’interno della sala è tempo di abbandonarsi al film. E il bilancio delle prime visioni ti ricorda la grande differenza tra “andare al cinema” e “andare a un festival”. 

Quando non ti piace un film che hai scelto di proposito fondamentalmente hai a che fare con la delusione delle tue aspettative.

Quando hai un problema con uno dei film scelti dall’articolato catalogo di un festival, la cosa non si risolve in maniera così semplice. Che significa? Che cosa mi stai dicendo? Lo so che mi stai dicendo qualcosa!

Guardi la pellicola e magari è pure girata e recitata bene. Magari è evidente che ha richiesto un certo impegno e il budget coinvolto non sono proprio due spiccioli. 

E poi pensi che qualcuno questa pellicola l’ha vista e ha deciso che meritava di essere portata qui, in sala, a gareggiare per un premio o fare parte di una rassegna. E tu guardi lo schermo e continui a farti una serie di domande, che fondamentalmente si riassumono con una soltanto: ma sono io che sono scemo?

Andare al cinema può essere forse un hobby. Andare ai festival è fitness, una partita di risiko e una serie di sedute psicanalitiche. 

Come cantava Carboni, mi sa che è una di quelle cose per cui “ci vuole un fisico bestiale”.

Sabato 23 novembre 2019 (Clara Calavita, il festivaliero occasionale)

Il festivaliero occasionale vs. l’inviato.
Contrariamente al nostro inviato Paolo Ferrara, il festivaliero occasionale può recarsi al festival solo nel fine settimana, quando non lavora. Quindi, con spirito baldanzoso, il sabato mattina si alza presto, infila nello zainetto i generi di sopravvivenza calcolati con la precisione di un vecchio escursionista e parte dalla provincia verso Torino.
Per sfruttare al meglio la giornata il trucco è l’abbonamento quotidiano. Così ci si obbliga a vedere il maggior numero possibile di film per sfruttare al meglio la cifra spesa. Il festivaliero occasionale sa che, incastrando orari di inizio delle proiezioni, durate, tempi di spostamento tra le sale coinvolte, riuscirà a vedere al massimo quattro film entro le ore 19. Ma sa anche che molti altri festivalieri occasionali sono nelle stesse condizioni, e che dovrà rinunciare ad almeno due dei quattro film che ha scelto di vedere perché i posti sono esauriti. Ripiegherà quindi su altri titoli scelti a caso in base alla durata, all’eventualità di riuscire a prendere un caffè prima dell’orario di inizio, e magari anche al fatto che vedere due film di seguito nella stessa sala evita lo spostamento sull’asse via Roma/via Po e quindi è molto più comodo.
Il festivaliero occasionale impara anche cose che ancora non sapeva. Per esempio che deve sempre andare in bagno prima dell’inizio del film, perché al termine il flusso di pubblico esce dalla sala direttamente in strada. Sperimenta inoltre il brivido della rush line, la coda per chi non ha ritirato il famigerato biglietto blu, che viene emesso rigorosamente entro le 13.30 del giorno in corso. Deve quindi mettersi in coda e sperare che sia rimasto qualche posto o che qualcuno rinunci. Il cinema diventa così molto simile alla frenesia da sold out che ben conoscono gli appassionati di concerti, anche perché l’unicità è la stessa: i film da festival molto raramente hanno una distribuzione normale delle sale, e perderli significa probabilmente non vederli.
Infine, il festivaliero occasionale ha una grande certezza. Se il film di cui tutti parlano mentre sono in coda risulta esaurito già un’ora prima dell’inizio, meglio puntare su quel classico degli anni Cinquanta proposto nella retrospettiva. È probabile che lì ci sia meno coda, e se è sopravvissuto fino a oggi è assai improbabile che vi deluda.  

Ndr. Se, dopo essere entrati alla prima proiezione alle 9.45 ed essere usciti dall’ultima alle 19, non vi ricordate il titolo, e forse nemmeno la trama del primo film visto al mattino, non preoccupatevi, è normale. Pensate che l’inviato al settimo giorno consecutivo di festival sarà messo peggio di voi.  

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Domenica 24 novembre 2019

Orecchie, ondulatura da umido, pieghe di ogni genere e in ogni direzione, segni a penna sparsi ovunque: al terzo giorno il catalogo del festival, vera e propria mappa delle proiezioni, sembra passato per le mani di un treenne piuttosto esuberante.

Un vissuto diario di guerra che deve subire una delle fasi, degli effetti collaterali del festival. Una qual certa smania che prende i primi toni della dipendenza.

Si tratta di quel momento in cui, in un moto illusorio di megalomania, ti convinci che vuoi e puoi vedere tutto. 

È una fase altalenante, che fluttua come fluttuano le giornate del festival. C’è quella giornata (per me le prime due purtroppo), in cui infili una cantonata dietro l’altra. In cui sotto sotto invidi la spavalderia di quelli che hanno abbandonato la sala durante la proiezione mentre tu continuavi a illuderti “adesso succede qualcosa, adesso va da qualche parte, dai adesso arriva un senso”. Sono quelle giornate che incalzano il tuo lato più cinico e dove l’universo cinema ti sembra improvvisamente quella festa snob dove l’unica cosa che ti interessa è il buffet, ma non vuoi fare la figura del rapace. 

Poi ci sono quelle giornate (e oggi è una di quelle) in cui azzecchi un buon film. E azzecchi un ottimo documentario. E il cinema torna a essere il cinema. 

E allora ne vuoi ancora. E allora ne vuoi di più.

E allora vuoi tutto.

Come quando al buffet hai beccato quella tartina con un patè, che non sai se era animale o vegetale, ma mamma mia! e hai abbassato la guardia. 

E quella dopo era fegato e rabarbaro.

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Lunedì 25 novembre 2019

Lo sapete che i portici di via Roma con la pioggia diventano un perfetto test per l’aquaplaning su scarpa?

Non è una condizione da sottovalutare quando la lunga giornata richiede di spostarsi più volte avanti e indietro tra Multisala Reposi (quasi Porta Nuova) e Cinema Massimo (praticamente sotto la Mole). La mancanza di attrito infatti potrebbe far risparmiare secondi preziosi sui tempi di percorrenza decisamente risicati.

E quando credi di essere riuscito a far quadrare tutta la programmazione tenendo conto di piani B e C scopri, da una conversazione colta da un vicino di poltrona, che esistono due film con lo stesso titolo. Corri a controllare e ovviamente scopri che ti interessano entrambi. Ricalcoli come un navigatore che ha scoperto che hai preso lo svincolo sbagliato e ti figuri subito tre scenari: li perdi entrambi. 

Ne vedi solo uno. 

Sbagli e vedi lo stesso due volte.

Perché sai che da qui a sabato può ancora succedere di tutto, soprattutto alla tua salute mentale.

Nel frattempo la bilancia che pesa le visioni ha iniziato a ballare. E al 4° giorno il piatto “gradimento” ha iniziato a pesare più di quello “delusione”.

Speriamo di mantenere stabile il trend.

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Martedì 26 novembre 2019

Le svariate code (per entrare in sala, per i biglietti, per il bagno), elemento imprescindibile di rassegne e simili, sono ambiente ideale per lo studio della fauna da festival. Facile riconoscere i veterani. Persone che mangiano pane e cinema, dal piglio tranquillo e sicuro di chi il programma sembra conoscerlo meglio degli stessi organizzatori. Sono isolati in un luogo tutto loro, come una sorta di asceti a cui in qualche modo forse vorresti pure aspirare.

Origliare mentre si è in fila è un gesto da impiccioni, ma un utile strumento per captare consigli o segnalazioni. Sempre che non si incappi negli “espertoni”. È una categoria questa che ama qualsiasi occasione permetta loro di snocciolare non tanto la propria passione, quanto la vastità delle loro conoscenze in merito. Di solito li riconoscete perché citano i registi meno mainstream come se ci avessero appena mangiato insieme. Sembrano indifferenti, ma se li osservi bene cogli i loro sensi in allerta, pronti a captare qualsiasi conversazione in cui intrufolarsi casualmente o di riconoscere qualcuno con cui si è già scambiata qualche parola. Fosse anche chiedere se il posto accanto fosse libero. Ci sono poi ancora le comitive, in gruppi compatti o che si riuniscono una volta in sala, che si scambiano commenti, pareri e beni di prima necessità. Sembrano un gruppo di ragazzini in gita, a prescindere dalle loro reali anagrafiche. E ancora ci sono i casuali, attratti da un film in particolare o forse anche solo dalla vista delle numerose code. Hanno un’area spaesata, da turista che sta cercando di capire se quello davanti a sé è un monumento importante, una cosa che dovrebbe conoscere o se per l’ennesima volta ha scambiato l’assembramento di un cordoglio funebre per la coda di un museo.

Ma a qualsiasi categoria si appartenga, queste oppure altre ancora, la visione dei film al festival si svolge in educato silenzio, al punto che per farsi un’idea delle reazioni del pubblico durante le proiezioni, molto spesso bisogna imparare ad ascoltare e interpretare il silenzio.

Sui consigli però, che siano diretti o meno, bisogna che ci mettiamo d’accordo. Che le parole sono importanti, come ribadiva Nanni Moretti. Lasciando perdere tutte quelle situazioni in cui potremmo discutere di cosa esattamente intendete per divertente, parliamo di un termine molto specifico. Sappiate, voi che  consigliate, parlate, presentate o scrivete di un film, che “divertente” ed “esilarante” non significano assolutamente la stessa cosa. 
Proprio no. 

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Mercoledì 27 novembre 2019

Tra i promoter del festival c’è una compagnia aerea che, con un semplice cappuccio bianco, dà l’impressione che le poltrone della sala ricordino gli interni di un qualche aereoplano. Una sensazione che non si limita certo alla brillante idea pubblicitaria. Confrontarsi con le varie sale sembra infatti catapultarci in differenti tipologie di volo. Ci sono le sale che ti ricordano certe low cost, dove sembra che i progettisti abbiano preso le misure per esseri umani privi di gambe e ginocchia. Altre dove hai spazio per lo zaino, l’ombrello (lo abbiamo detto che ha ripreso a piovere?) e ancora un po’ di spazio di manovra. 

La dimensione degli schermi ovviamente è varia, ma soprattutto lo è la distanza a cui ti ci puoi trovare (soprattutto quella dai sottotitoli potrebbe non essere da sottovalutare).

Finito il vostro volo nella pellicola di turno, è buona norma che abbiate una chiara idea delle vostre cose. Sciarpe, cellulari, penne, bottigliette, etc. etc. Perché le luci rimarranno spente per tutta la durata dei titoli di coda. E voi magari dovete lanciarvi fuori per sperare di raggiungere in tempo la proiezione successiva, in uno degli altri cinema.

Le controindicazioni? Non solo l’ovvia possibilità di perdere o dimenticare qualcosa, quanto piuttosto vivere in preda all’ansia di farlo perlustrando ogni volta il pavimento con la torcia del cellulare anche sapendo di non aver tirato fuori nulla dallo zaino. Sai mai che qualcosa abbia deciso di uscire per i fatti suoi…

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Giovedì 28 novembre 2019

Un ottimo metro di misura per comprendere il vostro livello di gradimento e coinvolgimento per un film? Durante un festival in fondo ce n’è uno piuttosto facile: quanto spesso vi trovate a pensare a quello che farete (come calcoli e ricalcoli di spostamenti e incastri per altre pellicole o con i mezzi per tornare a casa) non appena sarà finito? È una valutazione a carattere inversamente proporzionale: più sono frequenti pensieri del genere, meno state gradendo. Se poi nel mezzo cercate di guardare più volte chi vi ha cercato sul cellulare senza fare troppa luce, o se ricordate a voi stessi di comprare la carta igienica, allora forse è il caso di accettare che potrebbe essere il momento di abbandonare la sala. O magari di riposare qualche momento le palpebre…

Il dramma sono le numerose pellicole che stanno nel mezzo. Quelle in cui fate questi pensieri a fasi alterne. Quei film che, fondamentalmente, “avrebbero potuto essere”. Sono spesso tra i più frequenti. E non solo nel cinema indipendente o di nicchia. Anche film di produzioni e cast pluristellati non è detto per forza siano sempre e automaticamente memorabili. La selezione a un festival (lo abbiamo già visto) non offre una garanzia assoluta. L’oasi di pace, a cui ricorrere magari dopo una sequenza poco fortunata, sono le rassegne dei classici. 

La “si può fare!” di questo TFF, che per lo più ripropone grandi classici dell’horror di casa Universal e dell’inglese Hammer (ma non solo) è l’esempio perfetto. Visioni sempre piacevoli ma anche la riscoperta di un’era dove l’ingegno sopperiva all’assenza dei roboanti effetti speciali moderni. Dove magari, accanto ad alcune soluzioni posticce e costumi di gomma, l’uso di montaggio, regia e musiche si combinavano in soluzioni creative e di notevolissima intelligenza oggi spesso impigrite da una comoda cgi.

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Venerdì 29 novembre 2019

Non ci resta che la coda.

È vero, il festival occupa ancora i Cinema Reposi e Massimo (non il Classico, con le proiezioni stampa) ancora per sabato, giornata al termine della quale ci saranno le premiazioni. Domenica arriveranno le repliche dei vincitori dei vari concorsi. Ma non sono che code, titoli di coda.

Il sapore di epilogo del festival è tutto qui, in questo venerdì. 25 film su oltre un centinaio e 8 corti. Il bilancio (che non può che essere parziale) è mediamente positivo. Nel senso che i famosi piatti della bilancia pendono un po’ di più sul fronte positivo, seppure non ci siano molti picchi alti. Su questo fronte, quello delle vette alte, la Spagna è la mia personale vincitrice: su tutto con El Hoyo, crudo, sci-fi dalle sfumature horror che con personaggi memorabili, ottima scrittura e una grande misura cinematografica che disseziona l’assurda e crudele struttura della nostra società moderna; ma c’è anche il calore dello storico Mientras dure la guerra di Amenabar, che ci racconta il periodo della salita al potere di Francisco Franco attraverso gli occhi – e il cuore ferito – dello scrittore Miguel de Unamunno.

Diverse le sorprese positive, tra il gustoso e l’interessante (ma in senso positivo, non come quando vogliono presentarti una ragazza e alla tua domanda “com’è?” rispondono “è simpatica”). In questa categoria candido sicuramente la sorpresa di Mrs. White Light, una commedia americana delicata e sul filo del surreale che se la gioca niente meno che con il tema della morte, con ottimi risultati. C’è God Exists, her name is Petrunya, produzione Europa dell’Est per una commedia amara con una protagonista che destabilizzerà il suo mondo e noi. O ancora lo spassoso, assurdo e surreale Guns Akimbo, film neozelandese ultra action con un Daniel Radcliff (Harry Potter) sempre più lanciato in film fuori da ogni schema. E, sul fronte nostrano, Il grande passo, dove Battiston e Fresi se la giocano con un rapporto fraterno da costruire, un veneto rurale un po’ gretto e provinciale e un sogno ambizioso: la Luna, in un film forse non perfetto ma sicuramente fresco per il nostro panorama.

Vari i film gradevoli. Siamo nell’ambito del non memorabile, ma parliamo di pellicole di ottima fattura che si lasciano guardare con piacere. Dai due amici scozzesi che nel 1994 devono trovare il loro spazio in un rave di protesta contro la nuova legge che vieta i raduni di persone in cui si ascolti musica dai beat ripetitivi di, appunto, Beats, alla garanzia di grandi produzioni come The God Liar o Knives Out che vantano cast che vanno da Ian McKellen e Helen Mirren a Daniel Craig, Christopher Plummer, Tony Colette e parecchi altri.

Alto invece il numero delle delusioni, un gruppo che raccoglie film che deludono le aspettative perché magari non osano abbastanza o perché avevano in mano tutte le carte giuste ma poi non le hanno sapute sfruttare. Tre esempi: Spider in the Web con Ben Kingsley e Monica Bellucci (che in inglese non è che proprio si faccia un favore), spy story interessante ma con poca spinta e che incespica un poco su se stessa. Dreamland, (quello con Stephen McHettie, che l’altro poi l’ho perso), una storia straniante fatta di elementi, manco a dirlo, al limite dell’onirico, intrigante ma allo stesso tempo a tratti un poco respingente. Metamorphosis, horror coreano che bascula tra buone trovate e momenti che rasentano pericolosamente il ridicolo, con una storia di esorcismi cattolici e case maledette dove forse si è voluto mettere un po’ troppo. Ma queste erano le piccole delusioni.

Poi si arriva in quel magma dove ribollono i film che fondamentalmente ti risultano inutili, sbagliati o semplicemente brutti. Opere dove il livello tecnico, quello attoriale o la messa in scena in sé non sono neppure terribili, in alcuni casi, anzi. Ma l’insieme o i suoi obiettivi sì. C’è Algunas Bestia, film che parte affascinante, per temi e immagini, ma piano scivola in un morboso in cui si finisce per indugiare quel tanto oltre che si fatica a non vivere come una mera voglia di scandalizzare a tutti i costi, ben oltre quello che serviva alla propria pellicola e al proprio tema. Forse non brutto, sicuramente disturbante per i motivi sbagliati. C’è Starfish, film incoerente, a tratti pretenzioso e sprecato che costruisce una accozzaglia di elementi con pretesti e motivazioni deboli e piuttosto pretenziose. C’è Die Kinder Der Toten, commedia demenziale che vorrebbe dissacrare un genere (nello specifico l’horror-zombie) ma che eccede così tanto nel volutamente posticcio e dozzinale da finire per essere soltanto brutto e, appunto, dozzinale.

Ma certo non sono i soli. I classici riproposti ovviamente fanno categoria a parte (e in senso decisamente buono), come ho già avuto modo di dire, mentre sul fronte documentari sono riuscito a vedere poco.
Sicuramente da segnalare Scream Queen! My Nightmare on Elm Street, dove scopriamo la storia di Mark Patton, giovane interprete dell’horror Nightmare 2, sparito dalle scene (e praticamente dall’America) subito dopo l’uscita del film che avrebbe dovuto far decollare la sua promettente carriera, perché il film viene tacciato di essere troppo gay. È il 1985, la paura dell’AIDS sta esplodendo in una Hollywood che è ancora regno tabù per l’omosessualità pubblica. Resto perplesso invece su Space Dogs, che alterna filmati di repertorio e racconto degli animali utilizzati dai russi nella corsa allo spazio, dalla famosa Laika ai successivi, soprattutto cani, e una serie di riprese che seguono cani randagi di Mosca. Se risulta interessante la parte più narrativa e documentativa, lascia perplessi quella di cornice, eccessiva e sempre meno coesa con il resto. A corollario il film non lesina su scene crude. Se sembra comprensibile la loro presenza nei filmati di repertorio (con la preparazione degli animali per i viaggi nelle capsule spaziali), l’indugiare della macchina da presa nelle scene al presente risultano meno giustificabili, se non per quello che è parso come un certo voyerismo un po’ morboso (e che ha spinto diverse persone a uscire dalla sala e una parte delle rimanenti a proseguire la visione portando le mani per coprire gli occhi nei momenti peggiori).

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Sabato 30 novembre 2019

E dopo 9 giorni di corse, code, nebbia, pioggia, illusioni, delusioni, emozioni, frustrazioni e viaggi in altri mondi, il 37° Torino Film Festival è arrivato alla sua conclusione. L’ho chiuso con Mi chiamo Altan e faccio vignette, documentario che ci porta alla scoperta del lato più nascosto e meno noto di Francesco Tullio Altan, quello umano, decisamente lontano dalle aspettative. Un racconto che scivola sulla sua biografia e le sue opere entrando nella sua casa e nella sua famiglia mentre, a corollario, personaggi come Stefano Benni o Paolo Rossi ce ne tracciano strani ritratti o giocano con le sue stesse vignette.

Ma il TFF e i festival di cinema non sono soltanto una lunga ubriacatura cinematografica, ma anche una serie di contest, premi e concorsi. Vediamo allora com’è andata. 


Per il Concorso Internazionale Lungometraggi vincono:
Miglior film: HVÍTUR, HVÍTUR DAGUR / A WHITE, WHITE DAY di Hlynur Pálmason (Islanda/Danimarca/Svezia).

Premio Fondazione Sandretto Re RebaudengoLE RÊVE DE NOURA di Hinde Boujemaa (Tunisia/Francia/Qatar).

Premio per la Miglior attrice a: VIKTORIA MIROSHNICHENKO e VASILISA PERELYGINA, per il film Dylda / Beanpole di Kantemir Balagov (Russia).

Premio per il Miglior attore a: GIUSEPPE BATTISTON e STEFANO FRESI per il film Il grande passo di Antonio Padovan (Italia).

Premio per la Miglior sceneggiatura a: WET SEASON di Anthony Chen (Singapore /Taiwan).

Di questi, per la legge di Murphy, sono riuscito a vedere solo Il Grande Passo: non ho metri di paragone quindi, ma mi sembra appropriato.
Il PREMIO DEL PUBBLICO lo vince invece proprio il film che mi aspettavo: MS. WHITE LIGHT di Paul Shoulberg (Stati Uniti). Non avendo visto gli altri vincitori non sono in grado di dire se siano o meno migliori di EL HOYO, ma sono molto contento che questa incredibile pellicola si sia comunque portata a casa qualcosa: il  PREMIO SCUOLA HOLDEN per la Miglior sceneggiatura. Questo premio segnala anche in menzione speciale:  
DYLDA / BEANPOLE di Kantemir Balagov (Russia) e HVÍTUR, HVÍTUR DAGUR / A WHITE, WHITE DAY.

Sul fronte documentari, vince l’INTERNAZIONALE.DOC 143 RUE DU DESERT di Hassen Ferhani (Algeria/Francia/Qatar), mentre il Premio Speciale della giuria per Internazionale.doc se lo aggiudica KHAMSIN di Grégoire Couvert e Grégoire Orio (Francia).

Per ITALIANA.DOC vince FUORI TUTTO di Gianluca Matarrese, mentre il premio speciale di questa sezione va a L’APPRENDISTATO di Davide Maldi.

ITALIANA.CORTI assegna il premio Miglior cortometraggio a SPERA TERESA di Damiano Giacomelli e il Premio Speciale della giuria a LA BUCA di Dario Fedele.

Ci sono poi il PREMIO FIPRESCI (Premio della Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica) che va a LE RÊVE DE NOURA di Hinde Boujemaa (Tunisia, Francia, Qatar), il PREMIO CIPPUTI 2019 – Miglior film sul mondo del lavoro a OHONG VILLAGE di Lungyin Lim (Taiwan/Repubblica Ceca).

PREMIO CINEMA D’ACQUA | Prima edizione del concorso per cortometraggi italiani organizzato collaborazione con QC TERME va a APOLLO 18 di Marco Renda.

Tra gli 8 corti del PREMIO TORINO FACTORY vincono in ex-equo MANUALE DI STORIE DEI CINEMA di Stefano D’Antuono e Bruno Ugioli e
SELENE di Sara Bianchi. Avendo assistito alla piccola rassegna degli 8 corti posso dire che (per fortuna!) non poteva andare altrimenti! 

A chiudere ancora una serie di premi “collaterali”: 
PREMIO DAMS per il  miglior Casting Director a: VLADIMIR GOLOV per il film Dylda/Beanpole (Russia).

PREMIO ACHILLE VALDATA per il premio Miglior film a: MS. WHITE LIGHT di Paul Shoulberg (USA).

PREMIO AVANTI! per la Distribuzione delle opere prime premiate nella rete dei cineforum e cineclub al film: HVÍTUR, HVÍTUR DAGUR / A WHITE, WHITE DAY di Hlynur Pálmason (Islanda/Danimarca/Svezia). 

PREMIO GLI OCCHIALI DI GANDHI a: SONO INNAMORATO DI PIPPA BACCA di Simone Manetti (Italia) con una MENZIONE SPECIALE  a: NOUR di Maurizio Zaccaro (Italia).

PREMIO INTERFEDI, “Premio per il rispetto delle minoranze e per la laicità” a MADE IN BANGLADESH di Rubaiyat Hossain (Francia/Bangladesh/Danimarca).


I titoli di coda hanno smesso di scorrere, la musica è andata in dissolvenza, le luci si accendono. È il momento di lasciare la sala. Possibilmente pulita. Ci vediamo alla prossima proiezione.

*speaker di Sono Cose Serie, trasmissione in onda su RadioOhm il mercoledì alle 19.00