di Matteo De Simone
13 febbraio 2019, World Radio Day. Oggi è la Giornata Mondiale della Radio, istituita dalle Nazioni Unite e dall’UNESCO. E se Lino Banfi mi dice che oggi si festeggia, io festeggio. Punto.

Però, datemi una mano… la letteratura agiografica non è il mio forte anche se il tema è quel medium sbalorditivo per il quale ho una debolezza smaccata.
Facciamo così, io butto giù qualche punto e voi mi dite se la questione sta in piedi. Tema: Le 4 cose che rendono la Radio “il meglio media” che l’umanità abbia mai inventato.
1. Non la puoi odiare
La tv è una cattiva maestra, i videogiochi trasformano i ragazzi in serial killer, i fumetti sono moralmente devianti, il cinema è fracassone e volgare, Internet è un’anarchica accozzaglia di menzogne: ogni media ha il suo filone di detrattori. Ma la Radio? Io ho cercato un po’ online – per cui non fidatevi – e non c’è un vero filone “anti”. Mi ritrovo alla fine sempre a leggere di chi ricorda che con Radio Londra abbiamo sconfitto i nazisti, con le radio pirata abbiamo rivoluzionato la cultura ingessata dai perbenismi o che il calcio era più bello quando lo ascoltavi a Tutto il calcio minuto per minuto.

La Radio è diversa: o la ami o la ignori, ma non la odi. Sarà perché c’è sempre in ogni vita, anche solo per la lunghezza di un viaggio in macchina o perché la ascolta il tuo vicino di scrivania a lavoro – e anche in quel caso odierai il tuo vicino, non la radio.
Scrive Massimo Cirri, in un bel saggio a tema, che la Radio come oggetto quasi non esiste più, disciolta in telefonini, tablet e smartwatch: “si sente ovunque e non c’è”. Sembra quasi quel tizio che prende tutti i giorni il treno con te per andare a lavoro: dopo qualche mese o ci fai amicizia – un’amicizia porzione singola che andrà avanti fino alla pensione – oppure ti ritrovi in mano quel rapporto taciturno per cui ti scappa un sorriso quando te lo ritrovi sugli spalti dello stadio a due file di distanza.
2. Suona come un vinile
Ora: non vorrei scatenare una rissa, ma la scienza è chiara sul tema: un buon mp3 veicola in modo più fedele la musica del vinile se rapportata alle capacità medie di un orecchio umano (… e apprezzate con quanta cura ho scelto queste parole). Ma la musica è una questione diversa dal veicolare semplicemente dei suoni, per questo un vinile ha un tocco in più. Ho anche un amico che adora più il tenue fruscio tra una traccia e l’altra che ascoltare i brani in sé.

La Radio è così, perché quella vera è fatta di dirette, ossia di umori che filtrano dietro le parole, di sbavature, tempi variabili, improvvisazioni. Momenti irripetibili, frutti dell’istante esatto in cui sei lì insieme a chi ti ascolta. Sono situazioni uniche che trasformano lo speaker in un redivivo Paganini, il tizio che non si ripete mai. Tutta roba che non c’è – mi spiace cari – in un bel prodottino confezionato, un podcast in tendenza.
3. È intimamente collettiva
Lo studio radiofonico è un luogo intimo: un posto chiuso dove sei da solo o con pochi amici, un posto isolato dal mondo che ruota intorno a un microfono. Microfono che apre una invisibile corrispondenza di amorosi sensi con una indefinita umanità in posti e mondi diversi e spesso lontani. Chi parla non vede, chi ascolta non vede eppure… si crea una fiducia inusuale per cui, così al buio, si sceglie di stare insieme per un po’.

E se sei dall’altro lato dell’antenna, allora sei lì che ascolti veramente! Incredibile: anche se stai stirando o stanando il gatto dalla dispensa, il tuo cervello segue le parole che sente perché la radio semplifica, asciuga, sottrae e resta solo quello che serve per comunicare fino a metterti alle strette: se ci sei, allora sei qui con me. Punto.
Ma la sottrazione rende anche più sincera e paritaria la comunicazione perché ci sono pochi trucchi da usare, vale solo quello che si dice, senza steroidi. La lotta per catturare la nostra attenzione è costante e crescente: le app, i social, la tv. La violenza con cui tentano di strapparci il tempo un minuto alla volta a furia di notifiche, animazioni, contenuti monoporzione è estenuante e alienante. Non è una boccata d’aria sapere che almeno una volta – quando accendiamo la Radio – siamo noi a scegliere veramente a chi dedicare attenzione senza dover giocare in difesa?
4. Maliarda come un libro, puttana come la tv.
Solo parole: quindi in un blocco radiofonico puoi trovare tutta la potenza evocativa di una storia scritta e lasciata all’immaginario di chi legge. Eppure il clock radiofonico cova più di un secolo di tecnica e teoria della comunicazione, sfrutta le basi antropologiche della serialità, gioca con le pause musicali e la costruzione degli eventi per coinvolgerti e per spingerti dentro le emozioni con la ruffiana scaltrezza della modernità pop e markettara.

Suona male detta così? Neppure tanto, perché la necessità di trovare una linea di sincronia intellettiva tra chi parla e chi ascolta non rende mai, neppure la più ruffiana delle trasmissioni, banale o intellettualmente volgare.
E allora?
Che ne dite? Io rileggo quello che ho scritto e… mi sa che ho un po’ esagerato! Volevo offrire una visione della Radio obiettiva, volevo essere asettico e analitico…
… dovete provare, non so come altro spiegarlo: fate un salto qui in RadioOhm, scrivete un’email e venite a provare cosa succede in uno studio, davanti a un mixer, al cospetto di un microfono.
La verità è che questo articolo è scritto con il precipuo scopo di contribuire alla diffusione del mito della Radio come omaggio e dovuto servigio all’incredibile invenzione di quel vecchio volpone di Marconi.
E non si dica che queste parole siano mosse dall’amore per la Radio! Non è amore: è quell’attrazione identitaria e risonanza interiore che si infiamma ogni volta che un fonico alza un fader e apre le cateratte dell’etere.
Niente più.