di Giacomo Baudi
Giovedì 14 febbraio 2019. San Valentino, il santo protettore delle storie d’amore e, meno noto, degli epilettici. Cena a lume di candela con la propria anima gemella? No, opto per il concerto dei Subsonica. E senza anima gemella (so che Fabio, che era con me, mi perdonerà). È la prima delle due date torinesi al Pala Alpitour del tour che li sta portando nei palazzetti di tutta Italia a presentare “8”, il loro ottavo album registrato in studio. Per una band che ha fatto della sperimentazione il proprio segno distintivo, non posso che tentare di sperimentare anch’io nel raccontare il concerto, utilizzando le canzoni dell’album che ha segnato la loro reunion inserite in scaletta.
Bottiglie rotte – Al momento a terra non ce ne sono, il pubblico dei Subsonica in fin dei conti è abbastanza educato e io e Fabio abbassiamo di qualche anno l’età media. Il concerto inizia e i cinque avanzano verso il pubblico sul palco pazzesco che scorre avanti e indietro tra le luci fumose e vorticose. “Vi piace il nuovo album?”, chiede Samuel. “Mi piaci tu!”, esclama una dietro di me. Beh, d’altronde Samuel ha la capacità naturale di attirare l’attenzione su di sé, e continua a piacere anche con qualche anno in più sulle spalle.
Jolly Roger – È il nome del celebre vessillo pirata con teschio e ossa incrociate. I Subsonica sono stati lontani dalle scene per un po’, ma “adesso siamo qui” dichiarano nella canzone: tornano come pirati del terzo millennio alla conquista della contemporaneità. Il loro sound old school è più attuale che mai e molti gruppi odierni si sono lasciati ispirare da loro. “Tieni la tua rotta cercando la tempesta”. Precursori.
Punto critico – L’atmosfera si fa eccitante. “Alza la mano che la pista si illumina”: i cinque giungono all’ebollizione e da questo momento in poi non si smette quasi mai di saltare. Il Pala Alpitour si trasforma in una Discoteca labirinto, come promesso a inizio concerto.
L’incredibile performance di un uomo morto – “Sono bravo a riscrivere ogni capitolo di me”. Dopo un inizio malinconico, il ritmo si fa via via più trascinante. In generale, tutto il concerto ha un ritmo incalzante e travolgente, che anche i frangenti più distesi non affievoliscono. È impossibile resistere ai colpi scanditi da Ninja, alla carica composta di Max e al groove di Vicio.
Respirare – Dopo nemmeno un’ora è già il momento di una pausa. Il tempo di far indossare l’imbracatura a Samuel, che torna sul palco sormontando uno degli schermi che fino a poco prima facevano da scenografia. Una serie di schermi mobili LED, che scendono e salgono per tutta la durata del live, da fare invidia ai più grandi artisti internazionali.
L’incubo – Sale sul palco Willie Peyote, il “fratello sabaudo” con cui hanno collaborato nel nuovo album. “Forse l’ansia di deludere”. Qualche fan si è dichiarato deluso dall’ultimo disco, ma quando si fa un pezzo con Willie è difficile deludere. Il rapper torinese canta anche la sua I cani, invocando un “Amen” fra il pubblico, che dopo raggiunge fino alla fine del concerto.
Cieli in fiamme – Brano carico di tensione emotiva. “Non so come smettere”. Non riesco a togliere gli occhi dalle tastiere di Boosta che rimbalzano da una parte all’altra sorrette da una molla. Ma soprattutto mi chiedo: come fa Davide a suonare la tastiera posizionata più in alto della sua testa? Talento.
Le onde – Quando si fa musica da tanti anni ad ascoltarti ci sono tanti amici, ma tanti di loro non ci sono più. Carlo Rossi è uno di loro, caro amico del gruppo e punto di riferimento per la musica italiana, scomparso improvvisamente in un incidente stradale quattro anni fa. Una melodia lancinante unita a un testo che riesce a trattare l’argomento in maniera più leggera, trasportando tutto il pubblico “tra il tempo e le sue onde”.
Il concerto si avvia verso la conclusione con Tutti i miei sbagli, “di Casacci, Dileo e Romano” annunciano rievocando il Festival di Sanremo del 2000 a cui parteciparono. All’appello mancano pietre miliari come Istrice e Incantevole che, ahimè speravo di sentire live. Si riaccendono le luci e qualche bottiglia rotta per terra ora c’è (tranquilli, sembrerebbe tutto di plastica). Anche i nastri del numero otto sugli schermi hanno smesso di cercarsi ruotando su se stessi; quel numero otto che rappresenta non solo l’ordine cronologico del disco, ma in primis è simbolo dell’infinito, dello scorrere illimitato del tempo e di un continuo ritorno. Proprio così: gli anni Novanta ritornano nel disco come un nuovo inizio, un ritorno all’equilibrio del gruppo dopo i progetti individuali in cui sono stati impegnati. In fondo, Il cielo su Torino continua a muoversi come allora e Samuel, Boosta, Max, Ninja e Vicio continuano a essere testimonial d’eccezione nel panorama musicale italiano dell’immaginario industriale di questa città, delle sue strade e delle sue storie.
Le foto sono di Giacomo Baudi