di Simone Barisione
I Hate My Village in concerto al Circolo della Musica di Rivoli (TO), 21 febbraio 2019.
La storia dei cosiddetti “supergruppi” è narrazione assai complessa e ramificata, e nel corso delle decadi ci sono arrivate alle orecchie perle di rara bellezza come accozzaglie insensate, formate da nomi più o meno grossi della scena.
In Italia, come all’estero, la tendenza nel riunire autorevolezze del panorama vive negli ultimi anni una certa impennata, e le motivazioni sono diverse, da artistiche a economiche – non è un mistero che, per vivere di musica, i musicisti siano costretti a tour lunghi ed estenuanti, sfornando dischi a ripetizione, spesso con più progetti paralleli –.
A onor del vero, però, gli I Hate My Village non si possono annoverare pienamente all’interno di questa categoria, per almeno due ragioni: Adriano Viterbini e Fabio Rondanini hanno iniziato a jammare assieme in sala prove nel 2013, in maniera naturale e poco costruita. La seconda è che, semplicemente, la forza di questa band non fa leva sui progetti principali dei singoli membri, ma risiede in una – del tutto nuova – sinergia e identità.
Se non è scontato che la somma delle singolarità sviluppi un risultato matematico, nel caso degli I Hate My Village, però, il risultato è esponenziale.
Un altro profumo di sovvertimento gerarchico si ha dal disegno-palco che prendono i ragazzi all’ingresso sul palco. Se la presenza di un peso massimo della musica come Alberto Ferrari correrebbe il rischio di oscurare gli altri membri, questo pericolo è fin da subito scongiurato. Il gruppo è schierato in linea, a formare un lieve semicerchio, in una messa in palco che rimarca la natura democratica della band, dove è proprio il duo fondante e caratterizzante Viterbini-Rondanini a prendere il nucleo centrale del palco (quest’ultimo, spesso anche chiamato e osannato dal pubblico).
Dall’inizio del live ci vuole poco a sentire riecheggiare le note di Tony Hawks of Ghana, vero e proprio ritornello-mantra dell’intero concerto. Il riff, infatti, è stato ripreso due o tre volte, creando così un naturale collante tra pezzi strutturati e momenti improvvisati, non rari e gestiti con un termine desueto ma quanto mai calzante: maestria. Ed è dal singolo, che ha ricoperto il terzo slot della scaletta, che si ha subito l’impressione di uno spettacolo pronto a scorrere via liscio, senza intoppi.
Le sonorità degli IHMV sono ricche e sfaccettate: in un secondo si passa dal desert blues e dalle chitarre Tuareg di Viterbini, che ha saputo assorbire appieno le esperienze con Bombino, a ritmiche e codici più occidentali, vicine ai canoni del funk e del rock, creando così una texture allo stesso tempo familiare ed estraniante.
L’intero concerto non è durato più di un’ora, un minutaggio intelligente e sensato, visto il ristretto numero di brani in repertorio, ma anche funzionale a non annoiare il pubblico, composto principalmente da musicisti, addetti ai lavori e veri appassionati (non si può non notare la quasi totale assenza di smartphone al cielo e nevrotiche insta-stories, sostituite da facce attente e immerse nello show). La chicca: una cover, non particolarmente ispirata a dire il vero, di Smooth Criminal di Michael Jackson.
Menzione di merito all’organizzazione e alla location. Peccato solo per le restringenti norme di sicurezza: un sold-out con mezza sala vuota non si può davvero vedere. E per i riverberi lunghi di una stanza dal tetto alto e gli ampli spazi, un’altra problematica, però, che non si può risolvere in quattro balletti.
In definitiva una band per appassionati, con pubblico trasversale e quell’ottica fuori moda di andare a un concerto come si va al cinema o a teatro, senza l’apprensione del farsi vedere, del riprendere, del voler essere in un posto per motivi che spesso poco hanno a che fare con la musica.
Più I Hate My Village per tutti in questi tempi di crisi, non solo economica.
Le foto sono di Simone Barisione