//42 Records

42 Records

Intervista di Clara Calavita a Emiliano Colasanti (maggio 2016)

Come e perché nasce 42 Records? Chi ne fa parte e come dividete i ruoli?
42 Records nasce a novembre del 2007 – anche se i giornali ancora ci definiscono “neonata etichetta” – dal mio incontro con Giacomo Fiorenza, produttore tra i più stimati della scena indipendente italiana. Ci conoscevamo da tempo e ci siamo trovati nello stesso momento storico (lui aveva da poco lasciato Homesleep di cui era socio fondatore) con l’esigenza di dare vita a una cosa che fosse davvero nostra e che tenesse conto dei cambiamenti che il mercato musicale stava attraversando. In quel periodo io stavo vivendo una profonda crisi personale e avevo smesso di scrivere di musica (il mio lavoro “vero”, anche se forse non è neanche quello un lavoro vero), e 42 è stata la molla che mi ha dato la voglia di ripartire.
Giacomo aveva molte più competenze di me, mentre io avevo buone idee e tutto il resto l’ho imparato sul campo. Siamo ancora in due, lui si occupa più degli aspetti tecnici e io di quelli più creativi. Le band le scegliamo insieme e poi ci appoggiamo a una rete di professionisti del settore (editori, agenzie di booking, uffici stampa, distributori ecc.) con cui negli anni si è creata una sorta di affinità elettiva. Non è per un cazzo facile, ma in qualche modo è bello anche per quello.

Sui vostri social vi definite “L’etichetta piccolissima di musica bellissima”. Sentite di essere cresciuti negli anni? Cosa definisce la crescita di un’etichetta?
Devi sapere che io mi sono formato come ascoltatore ultra-appassionato di musica ascoltando la radio. Planet Rock, il programma che andava in onda su Radio 2 Rai la sera e che ora è stato anche immortalato in un libro da Luca De Gennaro, è stata la mia “internet”, il posto dove scoprivo le cose che poi andavo a cercare in giro.
La definizione etichetta piccolissima di musica bellissima nasce proprio da De Gennaro che, presentando un disco dei Kobenhavn Store su Radio Capital, disse proprio la frase “esce per un’etichetta piccolissima di musica bellissima”, anche se forse “di musica bellissima” è una cosa che ho aggiunto io.
Però boh, mi sembrava fosse una frase giusta e che ci rappresentava in modo abbastanza chirurgico.
A essere cresciuto davvero è il divario tra immagine percepita e la realtà: ora siamo un nome meno “nuovo” e in qualche modo c’è qualche ascoltatore accanito che considera il nostro marchio come una specie di “bollino chiquita”- garanzia di qualità – ma resto convinto che la maggior parte della gente che ascolta i nostri dischi spesso neanche sa chi è che li ha fatti uscire. E per certi versi è giusto così.
Ovviamente grazie all’esposizione maggiore di certe band sono aumentate anche le cose da fare.

Quanto valore ha, oggi, nel vostro lavoro, la ricerca e la scoperta di nomi nuovi su cui puntare?
L’unico valore, per me, è seguire le nostre inclinazioni senza forzarci troppo. Siamo nati come etichetta che dava spazio esclusivamente agli esordienti, e poi quegli esordienti sono cresciuti con noi. Trovo che questo sia più stimolante rispetto ad arrivare sui progetti quando sono già ampiamente avviati. Anche se come tutti abbiamo delle band già note con cui ci piacerebbe lavorare per passione e curiosità.
Che poi alla fine il motore di tutto è sempre quello: la curiosità. E guardare avanti è sempre più interessante che guardare indietro.

A posteriori, ripensando ai dischi usciti per 42 dagli esordi a oggi, ritenete ci sia un denominatore comune che ve li ha fatti scegliere? Da cosa riconoscete un disco 42?
Secondo me non esiste un vero e proprio “disco 42” perché una cosa che da sempre ci caratterizza è proprio l’assoluta varietà delle proposte. Sia io sia Giacomo siamo grandi consumatori di musica ed entrambi non siamo mai stati completamente legati ai generi. Io ho sempre ascoltato di tutto e quindi mi approccio al lavoro con l’etichetta esattamente nello stesso modo con cui mi approccio alla musica tutta.
Se una cosa mi piace, potenzialmente potrebbe andare bene anche per 42.
Se c’è una cosa, però, che forse caratterizza tutto il nostro lavoro è la forma canzone.
Essenzialmente 42 è un’etichetta pop che crede che un altro tipo di pop sia possibile.
E quello secondo me è il filo rosso che lega I Cani, Colapesce, Go Dugong, Jolly Mare, gli Wow, i Mamagavegas, i BSBE… tutte cose potenzialmente molto molto distanti l’una dall’altra ma che in qualche modo si confrontano con la forma canzone.

Giriamo la domanda precedente da un punto di vista esterno. Cosa credete che definisca l’identità di 42 tra il pubblico che ascolta i vostri dischi?
Ah boh, ripeto una cosa che ho già detto poco fa: per me il 90% di quelli che ascoltano i dischi che produciamo non hanno idea di quale sia il marchio che li pubblica. E per me è giusto così.
Il restante 10% invece sa che siamo dei fichi pazzeschi (sto ridendo, scrivilo che sto ridendo).

I Cani, forse il vostro gruppo più noto, ha fatto il salto in cui sperano tutte le band, da indie a fenomeno mainstream senza perdere la propria identità. Che ruolo ha avuto l’etichetta in questo percorso? E che impatto ha avuto questo passaggio (se l’ha avuto) sul modo di lavorare dell’etichetta?
Oddio, sinceramente non penso che I Cani siano diventati un fenomeno mainstream. Non sono mica Cesare Cremonini!
In realtà penso proprio che certe categorizzazioni nel 2016 abbiano perso molto del loro senso e che in qualche maniera I Cani siano la rappresentazione di come si possa provare a fare una musica che parli a molti senza per forza doversi adattare alle regole imposte dal mercato. Niccolò, per esempio, non rilascia molte interviste, le cose che rifiutiamo sono molte di più di quelle che accettiamo di fare, non trovi il suo faccione ovunque e non passa il tempo a spararsi i selfie con i vip per fare vedere che in qualche modo fa parte del giro giusto.
Sta facendo il suo percorso e credo che il ruolo dell’etichetta sia stato importante proprio nel permettergli di assecondare il suo carattere, le sue idee chiare, e non fare per forza quello che chiunque altro avrebbe considerato giusto fare. Una cosa che abbiamo capito lavorando ai dischi come quello de I Cani, ma anche di Colapesce o altri, è che più le cose vanno bene e più c’è del lavoro da fare e gli investimenti aumentano.

La collocazione geografica (Roma, nel vostro caso) ha un peso, positivo o negativo, nell’attività dell’etichetta?
In realtà in tanti si dimenticano che 42 è romana quanto bolognese e questo forse è il vero motivo per cui non abbiamo mai insistito troppo sul territorio (come per esempio fa molto bene Bomba Dischi).
Quando siamo nati c’eravamo dati come regola che non avremmo mai pubblicato troppi gruppi romani, poi le cose sono un po’ cambiate ed è stato giusto così ma non poniamo limiti alla geografia. Io credo che un piccolo peso nella crescita della tanto chiacchierata #scenaromana (scritto così, con l’hashtag) 42 l’abbia avuto e di certo abbiamo ricevuto tanto in cambio anche dalla città.

Esiste un grado di coinvolgimento maggiore o minore, per cui ci sono dischi che vengono accompagnati in modo più stretto nel percorso e altri che invece dimostrano di poter camminare da soli? Come cambiano le strategie di produzione e promozione a seconda della specificità del disco?
Il coinvolgimento per me è sempre identico, ma è la vita dei dischi che è diversa. Ogni pubblicazione ha una storia a sé e alla fine comunque la sorte di un album è sempre il pubblico a determinarla. Non tutto può essere promosso allo stesso modo, non tutto si rivolge sempre e solo allo stesso target. Lavorare su I Cani e lavorare sugli WOW è diversissimo, per esempio, e quello che va bene per uno non è detto che vada bene per l’altro.
Poi la mia vocazione è sempre maggioritaria, e se fosse per me tutti i gruppi di 42 meriterebbero di essere passati da Radio Deejay e invitati in televisione, ma so che non può essere così.
Quindi per forza di cose le strategie, ma anche il fine ultimo per cui un disco viene promosso, sono diverse. Mi piace pensare che ogni album sia un mondo e che ogni mondo abbia le sue regole.

Quanto c’è di vostro nei dischi che pubblicate, nel senso che corrispondono esattamente ai vostri gusti di ascoltatori, e quanto invece risponde a un’analisi razionale del tipo di progetto e di come potrebbe funzionare?
So che non ci crederà nessuno, ma quando scegliamo qualcuno su cui puntare raramente pensiamo a come potrebbe funzionare. Siamo molto istintivi in questo e infatti capita spesso anche di sbagliarsi.
Capita di essere convinti che una cosa farà il botto semplicemente perché a noi piace da impazzire e poi restare di sasso se succede poco e niente.
Io credo che nel 2016 non abbia più molto senso pensare all’etichetta discografica che ti costruisce addosso un immaginario e fa tutto il lavoro al posto tuo: c’è tanto di noi e dei nostri gusti nelle cose che pubblichiamo, ma il grosso è merito dei musicisti. 42 è un mezzo per divulgare musica e non un fine.

I vinili colorati, le edizioni limitate, le magliette eccetera: quanto conta tutto questo materiale di contorno rispetto alla musica e, per esempio, alla scelta di limitarsi a mettere invece un disco in download? Esiste una categoria di pubblico feticista da accontentare? Esiste un mercato discografico indipendente oppure c’è il pubblico dei live e, all’estremità opposta, la nicchia dei collezionisti?
Mi sorprende un po’ che tu chiami queste cose “contorno” mentre in qualche modo per me sono tutti elementi importanti perché avvicinano la musica alle persone e servono poi per creare e amplificare quell’immaginario di cui parlavamo prima. E alla fine è come dicevo prima: ogni disco ha la sua storia. Ci sono dischi che nascono per essere stampati su un supporto particolare e altri per cui il download e lo streaming diventa la faccenda principale. Tutto sta nel capire cosa vogliono e cosa piace quelli che la musica la ascoltano e la comprano.
E io sono uno di loro, eh, uno della peggiore specie: compratore compulsivo, e collezionista anche se non avvelenato (non sono uno da “prima stampa a tutti i costi” ma se un disco mi piace lo devo avere fisicamente).
A me per esempio non piace eccedere con le edizioni limitate: di solito ci limitiamo a fare un vinile (se colorato o normale lo decidono le band), un cd e poi digitale. E chi vuole comprare compra quello che più lo aggrada, mentre mi sembra che ormai si tenda sempre di più a fare dieci versioni dello stesso disco per farlo farlo comprare dieci volte dalla stessa persona. Ed è una visione che con condivido.
Esistono tutte le cose che hai citato e credo che sia l’insieme di tutto questo a fare un minimo la differenza.
Non ha più senso ragionare a compartimenti stagni.

Nel panorama dell’industria musicale italiana scegliete una cosa sola da cambiare e una che dovrebbe a vostro avviso rimanere immutata.
Trovo che sia un momento interessante e che stiano venendo fuori diverse cose che hanno potenziale e che possono sovvertire un minimo le regole. Mi pare si stia creando uno spazio importante per quello che io chiamo – anche se l’espressione mi repelle – pop alternativo. Un po’ come era già successo in posti come Inghilterra e Stati Uniti, dove robe come Shins e XX finiscono ai primi posti della classifica e sono a tutti gli effetti pop anche se di qualità e lontani dalle filiere produttive della grande industria.
Mi pare che anche qui da noi si stia creando lo spazio per fare cose importanti bypassando l’universo televisivo dei talent show e utilizzando un linguaggio diverso da quello che comunemente chiamiamo pop italiano ed è interessante anche guardarsi indietro per notare come alcuni dei progetti più solidi di questi ultimi anni siano venuti fuori dalle etichette indipendenti mentre faccio fatica a individuare band che sono nate in seno alle major e che abbiano inciso un minimo sulla vita musicale di questo paese (al di là, appunto, delle star nate dai talent show).  Invece non sopporto questa fissa che c’è ora di fare il verso al pop internazionale, quindi escono sempre più canzoni che ricalcano (in alcuni casi anche ai limiti del plagio) le hit di sei mesi prima.
Però mi rendo conto che ho solo scritto un pippone e non ho detto cosa dovremmo cambiare: posso dire tutto?